La comunità BDSM italiana favorisce gli abuser?

Molto spesso un abuser riesce a ritornare all'interno della comunità dopo esserne stato allontanato.

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La comunità favorisce gli abuser?

La domanda è di per sè sconvolgente: è davvero possibile che gli abuser possano continuare a trovare terreno fertile proprio grazie alla comunità BDSM? A dieci anni di distanza da quella che io ho definito “l’11 settembre della comunità BDSM italiana”, ovvero la morte a Roma di una ragazza durante delle pratiche BDSM, è il momento di chiederci se davvero abbiamo imparato dagli errori del passato. La risposta è decisamente complessa.

Di sicuro quando si parla di singole pratiche siamo in grado di snocciolare serie lunghissime di requisiti di sicurezza, di protocolli per evitare incidenti e di checklist da seguire per non commettere errori. Ma a livello macroscopico, come siamo messi davvero? Ci si aspetterebbe che le persone che si sono macchiate di scorrette gravi siano state marginalizzate dalla comunità in ogni dove. Invece non è così. E la colpa è della comunità stessa.

Abbiamo una comunità?

Lo so che molti dei lettori meno affezionati staranno storcendo il naso già solo leggendo il termine “comunità”, perchè immaginano questo termine come un luogo ideale, fatto di pace, amore e unità. Come ho cercato di spiegare in altri articoli, quello che io intendo per comunità è un luogo fisico o virtuale che condivide gli stessi principi e valori. Ovviamente, più questo “luogo” diventa grande e più bisogna utilizzare i minimi comuni denominatori per poter creare un luogo inclusivo.
Ma attenzione, un luogo inclusivo e allo stesso tempo SICURO non è affatto un luogo che fa entrare chiunque.

L’esempio che mi viene in mente è quello della laguna circondata da una barriera corallina. Tale barriera serve a proteggere l’interno della laguna dalle minacce esterne. O, se preferite, un altro esempio è quello del villaggio che deve essere protetto da un muro di cinta e da sentinelle. In entrambi i casi c’è un dentro e un fuori. Quello che è dentro non è necessariamente perfetto, ma è protetto da ciò che c’è fuori. E in entrambi i casi c’è un limite che definisce dentro e fuori. Può essere più o meno ampio, più o meno efficace, ma è presente. In un villaggio, poi ci sono le singole abitazioni che hanno a loro volta degli ulteriori confini posti a difesa: una palizzata, un recinto, un muro. Lo scopo del villaggio è assicurare un livello di protezione a tutti quelli che sono all’interno, sia che si trovino in casa, sia che si trovino per strada. I lupi famelici e gli altri predatori non possono e non devono entrare nel villaggio.

In una comunità di tipo sociale, chi fa da barriera deve avere dei valori etici superiori alla norma. Fare da sentinelle e proteggere il villaggio può non dare gratificazioni immediate a fronte di un impegno costante e gravoso. Ma, come ho detto, è necessario tenere lontani i lupi. Ed è necessario tenerli lontani da ogni casa all’interno del villaggio, non solo dalla propria, altrimenti non si sarà mai davvero debellato il pericolo. Grazie a quella difesa, la comunità del villaggio può prosperare e anche la sentinella ne beneficerà indirettamente. Ma qualcuno deve restare di guardia anche mentre gli altri “si divertono” o, semplicemente, “oziano”.

Doppia difesa contro abuser e predatori

E’ importante anche che quella comunità, abbia un suo codice, per poter stabilire quando il pericolo nasce all’interno della comunità stessa. Infatti, se è facile riconoscere un predatore all’esterno delle mura che cerca il modo di entrare, più difficile è identificare un abuser che è già all’interno. Quindi la vigilanza non può limitarsi a guardare cosa succede fuori, ma deve anche guardare all’interno e deve avere un suo codice di regole per stabilire se un comportamento è lecito o no.

In Italia abbiamo una comunità di questo tipo? NI. Ovvero, ci possono essere comunità piccole che però agiscono come case isolate. La capacità di creare uno spazio sicuro dai lupi è limitata dalla mancanza di collaborazione e di condivisione di intenti con chi è nelle altre case. Ognuno costruisce il suo muro, la sua palizzata, il suo reticolato per cercare di tenere lontani gli abuser. Ma le strade restano pericolose e non si può beneficiare di un reale vantaggio, nè dire che si è davvero un villaggio. Ognuno pensa per sè e nessuno si preoccupa di costruire e presidiare un muro di cinta o di organizzare dei turni di sorveglianza.

I pericoli creano una comunità

Più volte ho sostenuto che le persone si coalizzano e lavorano fianco a fianco in due casi: quando hanno un obiettivo comune o quando devono difendersi da un nemico comune. La comunità BDSM fa fatica a trovare l’uno o l’altro.

Se è facilmente comprensibile perchè non si senta la necessità di avere obiettivi comuni (a differenza della comunità LGBT, nella stragrande maggioranza dei casi, chi fa BDSM non è privato dei diritti civili, anche se le sue scelte, se rese note, possono creare problemi in alcuni ambiti lavorativi o durante un divorzio, diventa più complicato capire perchè la comunità non consideri davvero gli abuser come qualcosa non solo da scacciare dall’interno delle mura della propria casa, ma dall’intero villaggio e anche dal vicino territorio.

Ve la immaginate una comunità LGBT che tollera che nei suoi spazi, ritrovi, associazioni, comunità, ci siano omofobi o persone che si sono macchiate di discriminazione o di aggressioni nei confronti di persone LGBT? No, vero? Eppure nel mondo BDSM succede esattamente questo.

Comunità o gruppo?

Un errore molto comune è quello di confondere la voglia di comunità con la voglia di socialità. La differenza è fondamentale: in una comunità, lo scopo principale è di impegnarsi per il bene della comunità stessa, senza alcun tipo di ritorno diretto per sè: sono gli attivisti, le sentinelle. In un gruppo, fondamentalmente, non c’è nessuno che guida nessuno e ci si muove in base alle scelte e preferenze personali che a volte, casualmente coincidono. Le persone che riempiono uno stadio per un concerto o una sala cinematografica per vedere un film non sono una comunità e quella partecipazione non contribuisce a crearne una. Usufruiscono di un servizio e vanno via, ognuno per la propria strada.

Che cos’è una comunità?

In un bell’articolo che ho incrociato tempo fa sul Corriere, Paolo Fallai, spiegava il signficiato della parola comunità. La parola stessa implica che al suo interno vi sia il “munus” ovvero una parola che vuol dire allo stesso tempo sia dono che obbligo. E’ necessario quindi che ci sia uno scambio, il dare o ricevere un dono implica comunque un obbligo di qualche tipo. Quindi una comunità non è solo un posto indefinito da cui attingere, da cui ottenere qualcosa quando si ha bisogno. Come ho detto già tanti anni fa (parafrasando una citazione di J. F. Kennedy) affrontando una discussione simile sul gruppo BDSM Italia di Fetlife, “non chiedere che cosa può fare la Comunità per te, chiediti cosa puoi fare tu per la Comunità”.

Nel momento in cui capiamo che quel dono non vuol dire “regalo” e che l’obbligo rappresenta un impegno reciproco, ecco che nasce la comunità. Senza quell’impegno reciproco il concetto di comunità non esiste. Se ognuno pensa ai suoi interessi, non c’è una comunità.

Quando identifichiamo un gruppo come comunità, parliamo in effetti molto più che di semplice condivisione. Quando usiamo il termine comunità, lo facciamo per richiamare il fatto che c’è una tradizione che condividono, dei valori che difendono, un modo di affrontare la vita che permette loro di agire insieme e con solidarietà. Non basta un gruppo per fare una comunità, nè basta vivere in case vicine. Se non c’è la condivisione e se prevale il disinteresse e non c’è il dono dell’aiuto reciproco e non c’è l’impegno a non abbandonare chi è in difficoltà o sono vittime di un predatore, non c’è comunità.

Una comunità è composta da un certo numero di lavoratori sociali e attivisti di vario tipo. Non solo, ma ci deve essere uno scambio costante di informazioni tra tutti i vari livelli e, come ho detto, si deve avere un obiettivo comune da raggiungere o un pericolo da cui difendersi. Senza di essi si è solo un gruppo di persone e ben presto le diversità prenderanno il sopravvento e tenderanno a frammentare il gruppo.

Non è difficile usare la parola comunità: è difficile viverla.

La comunità stessa crea resistenza al miglioramento

In Italia il panorama della comunità BDSM è estremamente frammentato ed eterogeneo. Primo perchè spesso le realtà locali sono gruppi BDSM e non vere e proprie comunità. E poi perchè è obiettivamente difficile capire quali siano i denominatori comuni ed ancora più difficile, di conseguenza, avere una sorta di manifesto o di codice etico condiviso.

Ne volete un esempio? Quando si parla di framework come SSC o RACK, si spiega comunque che le persone coinvolte non dovrebbero essere intossicate da alcool o droghe. Giustissimo. E’ un’indicazione di sicurezza molto importante. Ora, provate a proporre che gli eventi BDSM a cui partecipate siano alcool-free, per garantire sempre che tutti giochino da sobri. Troverete sicuramente chi plaude a tale proposta ma, allo stesso tempo, troverete molte più persone contrarie. Non solo chi sulla vendita magari ci guadagna, ma anche da chi non vuole fare quella rinuncia in nome della sicurezza, perchè gli piace bere. Sebbene sulla carta una scelta alcool-free sia più sicura, senza un obbligo di legge imposto dall’alto, questo genere di iniziative volte ad aumentare la sicurezza non riescono a prendere piede e addirittura vengono osteggiate. Ma noi ci muoviamo in una zona grigia in cui la legge arriva sempre in ritardo e dovremmo essere semmai noi, che ci auto-definiamo gli esploratori del sesso estremo, a definire protocolli di sicurezza più restrittivi.

Al meglio delle nostre capacità, otteniamo dei risultati a macchia di leopardo. Sulla singola pratica, come già detto, siamo capaci di spaccare il capello in quattro, ma quando si tratta di portare avanti scelte etiche che impongono standard più rigidi o costi più elevati, allora siamo restii. E quindi ecco il proliferare di attrezzature malmesse e instabili, violazioni della privacy più o meno palesi, discriminazioni basate sul genere, norme igienico-sanitarie e HACCP ignorate (anni fa ho visto con orrore un barista riempire una bottiglia di marca di vodka con quella presa da un bottiglione simil-discount tenuto sotto il bancone di un bar e riprendere a fare cocktail come se nulla fosse) e così via.

Una convivenza forzata tra gruppi kinky eterogenei

Esiste una resistenza da parte della scena BDSM a migliorarsi e ad elevare gli standard. E la colpa non è solo degli organizzatori, ma anche e soprattutto delle persone che fanno parte di tale scena. Il commento più diffuso tra gli organizzatori è che è inutile cercare di migliorare, perchè alle persone non frega nulla e andrebbero anche all’evento più fuori legge e peggio organizzato, pur di dare sfogo alle proprie pulsioni. Questa visione del BDSMer medio come di una persona in preda o vittima dei propri istinti, pulsioni e feticismi è alquanto preoccupante.

E’ una vera e propria resa delle armi di fronte all’incapacità di organizzare, educare e indirizzare la massa. Ora, se il termine di paragone del partecipante medio è il feticista al limite del patologico disposto a leccare la suola sporca di una scarpa di una persona qualsiasi ad un evento qualsiasi, posso dare ragione a quell’approccio. Se però si considera il fatto che un feticista è un cugino lontano di chi fa BDSM e che spesso sono proprio i feticisti a creare situazioni di mancanza di rispetto o di violazione del consenso. Li avrete visti anche voi quando si sdraiano ovunque gli capiti, compreso davanti al bancone del bar del locale per poter intercettare le ragazze a caso, obbligandole di fatto a calpestarli per poter arrivare ad ordinare un drink. Oppure quando chiedono insistentemente, magari in un evento di contaminazione, di poter toccare o massaggiare i loro piedi, non accettando un no come risposta. Ecco… queste persone nei dungeon club del resto del mondo verrebbero buttate fuori senza troppi compimenti). Di questa situazione ne avevo parlato nel gruppo BDSM Italia di Fetlife, già ben 3 anni fa, in un post dal titolo significativo di “BDSM e feticismi: una convivenza forzata?” e che ho ripreso poi, da un altro punto di vista, in un altro articolo qui sul sito.

Ma il problema riguarda anche i BDSMer, che tendono a non preoccuparsi del modo in cui la comunità stessa opera. Se da un lato non ci si aspetta che i partecipanti ad un evento siano informati sulle normative che quell’evento deve seguire, dall’altro non c’è nemmeno un interesse o una spinta verso organizzatori e gestori vari a rendere pubbliche (almeno nell’ambito locale) le proprie decisioni e le proprie linee guida. Pochissimi si preoccupano di creare un “manifesto” che indichi quali obiettivi il proprio gruppo vuole seguire, quali comportamenti accettare e quali condannare e come.

Quindi abbiamo una comunità BDSM fragile e poco coesa, da un lato con poche ragioni di aggregarsi davvero a livello di gruppi e organizzazioni, sforzandosi di superare le differenze e lavorare come un unicum e dall’altro con una spinta che arriva dalla massa eterogenea ad accettare qualunque cosa, senza una capacità critica.

Il risultato di questa situazione è che le maglie che permettono ad un predatore di entrare sono ancora larghe e la stessa situazione permette spesso ad un abuser che viene buttato fuori dalla porta, di rientrare dalla finestra.

MEMORIA CORTA

Che cosa succede quando qualcuno si comporta male?

In una comunità BDSM come quella che abbiamo dipinto finora, che cosa succede quanto un predatore cerca di forzare le difese della comunità o quando un suo membro si comporta male e commette un abuso, meritando di essere allontanato? Ci si aspetterebbe che i primi vengano respinti e i secondi allontanati. Ma abbiamo visto che le maglie a difesa possono essere ampie.

C’è da considerare poi non solo la singola comunità locale (nell’esempio iniziale equivalente alla singola casa/edificio all’interno del villaggio), ma la macro-comunità, ovvero il villaggio stesso. Che senso ha scacciare un predatore dalla mia casa senza preoccuparmi che poi possa andare nella casa del vicino? E’ chiaro che la soluzione ideale sia sempre quella di poter allontanare l’elemento antisociale dall’intero villaggio. Ne siamo in grado?

Chi sono gli abuser?

Prima di tutto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando quando sto usando il generico termine abuser. Ci possono essere due grandi categorie di persone scorrette/pericolose: quelli che commettono qualcosa contro un altro membro della comunità e quelli che creano un pericolo o un danno per la comunità intera.
Proviamo a fare degli esempi. Tra gli abuser del primo tipo ci possono essere le persone coinvolte in un alterco o aggressione verbale o fisica oppure cha hanno commesso un incidente/violazione del consenso. In questo caso è importante capire se si tratta di un episodio unico (che però costituisce un precedente di cui tener conto) o se c’è un pattern comportamentale, ovvero questa è la loro tendenza a comportarsi.

Gli abuser del secondo tipo invece possono essere quelli che con il loro comportamento hanno gettato cattiva luce sull’intera scena, magari anche tra chi non fa necessariamente parte del mondo BDSM. E’ il caso, ad esempio, dei casi di cronaca nera legati al BDSM. In questa categoria metterei anche quelli che letteralmente sfruttano la loro posizione all’interno della comunità per ingannare o circuire le persone più fragili. Non è una novità (e le notizie a riguardo da tutto il mondo lo confermano, come quella di qualche tempo fa su Master James) che alcuni predatori riescano ad ottenere posizioni di rilievo e visibilità e le sfruttino per attrarre altre vittime. In quel caso è proprio la loro posizione all’interno della comunità che funge da alibi. “Una persona così in vista non può essere una persona cattiva”, giusto? Non sempre.

Cosa fa la comunità in Italia contro gli abuser?

Dopo una così lunga introduzione, veniamo finalmente al punto: che succede in Italia quando qualcuno viene accusato di aver avuto un comportamento scorretto? In pratica, che succede quando qualcuno, all’interno del villaggio grida “c’è un lupo per le strade!”?

Per chi non lo sapesse, esistono dei gruppi su Facebook e su Telegram in cui ci sono molti (ma non tutti) gli organizzatori di eventi più o meno grandi: dai piccoli munch di provincia ai grandi eventi fetish. La stragrande maggioranza di queste persone sono persone volenterose che dedicano un pò del loro tempo ad organizzare uno o due eventi al mese, a volte anche meno. Non sono stati scelti in base a criteri di nessun tipo, se non quello di aver avuto voglia di organizzare qualcosa. Non c’è uniformità per quanto riguarda età o esperienza, genere o preferenze riguardo le pratiche, nè -come già detto- c’è un manifesto condiviso a cui aderire, se non altro formalmente. E’ un gruppo di organizzatori, appunto, non una comunità di organizzatori.

La relazione che ogni organizzatore ha con la comunità locale è quanto più vario si possa immaginare: ci sono persone che sono attive in vario modo non solo il giorno del loro evento, altre che si limitano a fare il minimo necessario per promuovere la serata a cui collaborano. Inoltre vige una sorta di codice per cui quello che viene discusso all’interno del gruppo degli organizzatori non viene riportato all’esterno.

Uno degli scopi principali di questi gruppi è quello di condividere notizie riguardo vecchi e nuovi abuser e quello che hanno combinato. Questo comporta che se all’interno del gruppo degli organizzatori viene segnalato (mettendo a disposizione le informazioni a disposizione e facendosi raccontare i fatti dalla presunta vittima) che TIZIO ha commesso una violazione del consenso nei confronti di CAIO, ognuno degli organizzatori decide autonomamente se credere o no che questa storia sia vera e decidere quali contromisure prendere nei confronti di TIZIO. Succede quindi quello di cui parlavo prima della copertura a macchia di leopardo. L’abuser TIZIO può essere allontanato da un solo evento, da un gruppo di eventi e ritrovarsi quindi nella situazione in cui, all’interno di una stessa area geografica, sia ritenuto persona non grata da un’organizzazione ma non dall’altra.

E poi? Che altro si fa contro gli abuser? Nulla. Davvero… niente altro. Questa cosa ha poi un altro importante effetto, ovvero la facilità con cui i precedenti di Tizio (e di tanti altri abuser) finiscano nel dimenticatoio o vengano in qualche modo arbitrariamente prescritti. Infatti succede abbastanza spesso che le persone che organizzano un evento si alternino o si avvicendino. Chi arriva dopo non sempre è informato di quello che è successo in passato. Non c’è un registro degli abuser, non c’è uno storico di queste cose. C’è un passaparola, con tutti i limiti di un passaparola riguardo la correttezza dei fatti riportati. Quindi succede anche che i nuovi organizzatori non sappiano che Tizio ha dei precedenti. E quindi l’abuser di turno non solo trova spesso anche sul momento chi lo difenda, ma nel tempo, trova sempre più luoghi disposti a riammetterlo.

Tale metodo ha sicuramente delle lacune molto gravi per quanto riguarda l’efficacia e la trasparenza. Ci si sta lavorando, ma sono cose che richiederanno anni e, temo, ancora molti incidenti prima che ci si renda conto che può essere fatto di più e meglio per tutelare l’intero villaggio e non solo il proprio orticello.

Un’altra cosa da considerare, poi, è appunto che molte di queste discussioni vengono fatte da singole persone che, di fatto, rappresentano una piccola comunità locale. Non c’è un vero e proprio momento di confronto con il resto della comunità prima di prendere una decisione. Sono sicuro che i membri di una comunità locale vorrebbero sapere se il loro “amministratore di condominio” ha deciso che Tizio è benvenuto agli eventi che organizza. Spesso questa trasparenza non sembra esserci, perchè i singoli membri della comunità vengono tenuti in qualche modo all’oscuro. Si decide per loro senza coinvolgerli in quel processo decisionale. Ora, se si fosse tutti delle associazioni questo processo potrebbe anche avere senso (a decidere è un direttivo), ma nel momento in cui la comunità è formata spontaneamente ma non c’è una delega formale a prendere queste decisioni, sarebbe già importante che vi fossero dei momenti di aggiornamento su quello che avviene “a porte chiuse” a livello di gruppo di organizzatori.

E qui ritorna a farsi sentire il diffuso disinteresse della maggioranza per le questioni “politiche”. Alla gente non interessa, la gente vuole solo divertirsi, ecc ecc.. E si continua a confondere il concetto di gruppo con quello di comunità e quello di voglia di socialità con la voglia di fare comunità.

Quindi, ovunque voi siate, sappiate che riguardo la vostra sicurezza accanto a voi può sedere una persona che è stata violenta, che ha abusato anche più di una volta, perchè -senza che voi lo sappiate- l’organizzatore dell’evento a cui state partecipando ha deciso così.

Non solo, ma a volte quell’organizzatore ha le mani legate, perchè magari un munch si svolge in luogo pubblico e nessuno può vietare a qualcuno di entrarvi (certo non ti siedi al tavolo con gli altri, ma ci sono spesso tante occasioni di socializzazione al di là dello stare seduti al tavolo). Ma anche nel caso di un play party tenuto in un club privè, chi decide davvero è il gestore del locale. E’ proprio di questi giorni la notizia che MaestroBD, dopo tutto il casino successo a fine 2019, con tanto di comunicato a firma di tantissime associazioni e gruppi (alcuni dei quali poi hanno anche fatto autonomamente dietrofront), sia tornato proprio nel locale di Bologna in cui si era originata tutta l’ondata di indignazione.

Conviene che ognuno cominci davvero a pensare che il privato è politico e che bisogna smettere di guardare solo il proprio orticello. Bisogna impegnarsi a creare delle associazioni vere, che gestiscano dei luoghi fisici e non che lavorino in modo “virtuale” come società di organizzazione eventi. Ci vogliono più attivisti e più persone che si impegnino a creare un manifesto e una ideologia condivisa e condivisibile.

Perchè non è più tollerabile che abuser segnalati più volte (e quindi a cui non si può più dare il beneficio del dubbio) possano continuare a circolare, a trovare nuovi porti in cui essere accolti o, addirittura a poter tornare in quelli stessi da dove inizialmente erano stati allontanati.

Il gruppo degli organizzatori deve trasformarsi a sua volta in una comunità E tale comunità deve essere compatta. Si deve decidere democraticamente, ma bisogna poi restare tutti uniti riguardo eventuali sanzioni, sia pure temporanee, nei confronti di qualcuno.

Infatti non esiste solo il ban a vita, ma già alla prima infrazione si dovrebbe poter dare una sorta di cartellino giallo, facendo capire che però quel cartellino significa comunque trovare TUTTE le porte sbarrate per un determinato periodo di tempo.

Non solo, ma così facendo si può più facilmente far capire quale evento fa parte di questa comunità e chi invece ha deciso di non seguire quelle direttive e collocarsi al di fuori delle mura del villaggio, contando solo sulla difesa del proprio steccato.

Ci vorrebbe una federazione di gruppi e di associazioni. Lo dico da anni. BDSM Italia è nata originariamente con questo intento, ovvero creare una rete che servisse da muro di confine ben chiaro. Al suo interno ci sono delle regole e delle tutele (oltre che degli obblighi… ricordiamoci il concetto semantico di comunità), all’esterno invece si lasciano gli abuser, cercando di erodere loro sempre più terreno e costringerli sempre più all’angolo. Perchè si, una comunità deve potersi difendere dagli abuser e noi, adesso, possiamo farlo solo con un braccio legato dietro la schiena. Gli organizzatori dovrebbero essere le sentinelle di cui si parlava prima, anche se spesso sono più interessati al proprio orticello.

Ma ci vogliono anche più associazioni “vere”. Più attivismo, più voglia di creare davvero una comunità e non solo dei gruppi di persone che si vedono una volta al mese per chiacchierare o (tentare di) rimorchiare.

Ci vorrà ancora del tempo, ma sono sicuro che questo progetto prima o poi si riuscirà a creare. Magari pian piano comincerò a creare una rubrica riportando in modo anonimo le segnalazioni, in modo che poi ognuno possa andare dal proprio referente di comunità della sua zona e informarsi direttamente.

1 COMMENT

  1. Parole sante, sono d’accordo su tutto, e forse contro questo tipo di abuser si troverà un rimedio, come hai proposto, con una Federazione di Associazioni, ma che dire dei piccoli abuser sui social, che cambiano dieci profili e nick differenti ? Purtroppo di quelli non ci potremo mai disfare visto che tutto si basa sul completo anonimato…
    E persino Facebook, per non parlare degli altri social, che, almeno quando mi sono iscritto io, faceva finta di chiedere un documento di identità, non si assicura che un profilo corrisponda ad una persona reale con documenti reali… Almeno questo è quanto mi risulta, salvo errori od omissioni.

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